Trent’anni di reclusione. Così ha deciso la Corte d’Assise di Firenze nell'ultima udienza sul caso dell'uxoricidio di Picciche. I magistrati toscani hanno dunque confermato tanto la sentenza di secondo grado della Corte d’Appello di Perugia che quella di primo grado del tribunale di Spoleto condannando Filippo Serena, oggi 57enne, a trent’anni di reclusione scontati di trentasei mesi per effetto dell’indulto. L’uomo, accusato di omicidio volontario premeditato, il 5 luglio del 2003 uccise la moglie Annarita Rambotti sparandole un colpo di fucile al petto. Fu lo stesso uxoricida a chiamare il 112: “Ho ucciso mia moglie, venitemi a prendere”, disse qualche minuto dopo il delitto. La donna, all’epoca della morte 53 anni, impiegata del Comune di Trevi, aveva deciso di lasciare il marito appena una ventina di giorni prima. Decisione, quest’ultima, che Filippo Serena, si era rifiutato di accogliere, tanto che quando la moglie, quel tragico pomeriggio di follia, si era recata a casa sua per riprendere il figlioletto di sette anni, lui non ci aveva visto più e seminascosto tra la vegetazione del giardino della sua abitazione in via del Crocifisso a Picciche di Trevi aveva puntato dritto al cuore e fatto fuoco. L’aveva freddata a cento metri dal suo bambino, ignaro, che dormiva al piano superiore dell’ex casa coniugale. Il piccolo, la mamma che avrebbe dovuto portarlo via, non l’avrebbe più rivista. Una vita spezzata, dunque. Anzi tre. Quella del bambino, sette anni appena, e quelle delle sue due sorelle, entrambe maggiorenni. A loro, il padre-assassino, dal carcere di Viterbo dove è attualmente recluso, ha scritto una lettera di perdono. Una lettera caduta nel vuoto, cui i figli hanno negato ogni tipo di risposta che non fosse il silenzio. Un silenzio ancora carico di dolore. C’era stato poi, per l’uxoricida Serena, un colpo di scena. Il 23 giugno dell’anno scorso la Suprema Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza accogliendo un’eccezione procedurale sollevata dall’avvocato Salvatore Finocchi, difensore dell’imputato. Un vizio di forma relativo al mancato accoglimento della richiesta di partecipare al processo avanzata da Filippo Serena. Che giovedì pomeriggio, a Firenze, era invece presente. Ha voluto addirittura leggere un memoriale per spiegare cosa accadde quel tragico pomeriggio di luglio in cui tolse la vita alla moglie e madre dei suoi figli. Ha sostenuto la tesi dell’accidentalità dell’evento, un colpo, fatale, sparato per errore. I giudici non gli hanno creduto e per lui si sono di nuovo spalancate le porte del carcere.
13/03/2007 08:10
Redazione