Un’analisi del recente “motu proprio” di papa Benedetto XVI sulla liturgia. L’ha scritta il vescovo emerito di Gubbio – monsignor Pietro
Bottaccioli – che al tempo del Concilio Vaticano II era assistente personale di uno dei “padri consiliari”, monsignor Beniamino Ubaldi. Una riflessione, quella sull’ultima Lettera apostolica del Santo Padre, che monsignor Bottaccioli pubblica sull’ultimo numero de “La Voce” (da oggi in distribuzione), il settimanale delle diocesi umbre per il quale l’allora don Pietro scrisse fitte corrispondenze da Roma, proprio sui temi del Concilio.
Ecco l’intervento integrale di monsignor Bottaccioli pubblicato stamattina sulle pagine de “La Voce”:
"Sabato 7 luglio, Papa Benedetto XVI ha pubblicato una sua Lettera Apostolica, dal titolo “Summorum Pontificum” caratterizzata, nel linguaggio curiale, come “motu proprio”, che sottolinea la sua personale autorità nella redazione.
L’argomento riguarda l’uso della liturgia romana anteriore alla Riforma voluta dal Concilio Vaticano II e attuata nel 1970 col Messale pubblicato da Papa Paolo VI. L’ultima stesura del Messale romano anteriore al Concilio, che si rifà al Messale di Papa Pio V, legato alla Riforma Tridentina, è stata pubblicata con l’autorità di Papa Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogata.
“Papa Benedetto ha accompagnato il “Motu proprio” con una sua Lettera ai Vescovi, in cui ne spiega il senso, risponde alle obiezioni e preoccupazioni sorte al riguardo, anche prima di conoscerlo, e, in dodici articoli ne fissa le norme, che entreranno in vigore il 14
settembre nella festa della Esaltazione della santa Croce.
Non sono mancati per la verità nei commenti della stampa interpretazioni superficiali come: “si torna alla Messa in latino”; ma la celebrazione della messa in latino non è legata al messale del 1962; anche col messale del 1970 si può celebrare in latino e di
fatti si è assistito più volte anche in televisione alla Messa celebrata in latino in occasioni di eventi internazionali, come ad esempio le celebrazioni di canonizzazioni o le esequie di Giovanni Paolo II, il latino è la lingua ufficiale della Chiesa. Peggio le
interpretazioni che ne distorcono il senso, come se il “Motu proprio” volesse intaccare l’autorità del Concilio Vaticano II e riportarci indietro al periodo preconciliare, sconfessando l’opera di Paolo VI e di Giovanni Paolo II.
Papa Benedetto, rifacendosi al suo discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia romana, ha riproposto come chiave interpretativa del Concilio Vaticano II “quella della riforma e del rinnovamento non nella discontinuità e nella rottura ma nella continuità dell’unico
soggetto: la Chiesa”. Non essendo stato mai abrogato il messale di Giovanni XXIII esso può essere usato accanto al messale nuovo di Paolo VI. Già Giovanni Paolo II nel 1984 e poi nel 1988 con due speciali indulti aveva concesso la facoltà di usare il messale edito da Giovanni XXIII ai fedeli che l’avessero richiesto, i quali, affezionati alle antecedenti forme liturgiche continuavano ad aderirvi. Papa Benedetto peraltro distingue non due riti ma
“un uso duplice dell’unico medesimo rito”: la “forma ordinaria” è quella della liturgia rinnovata, la forma straordinaria è quella della liturgia anteriore al Concilio.
Le intenzioni che hanno animato il Papa sono quelle di sanare i conflitti manifestatisi nel dopo Concilio. Nessun sacerdote è obbligato peraltro a celebrare con il messale del 1962, ma i sacerdoti aderenti all’uso antico non possono in linea di principio escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Con il medesimo “Motu proprio” tornano in vigore anche gli altri vecchi libri liturgici: il Messale (ed. 1962), il Rituale (ed. 1952), il
Pontificale (ed. 1961-62), il Breviario (ed. 1962), il Martirologio e il Cerimoniale dei Vescovi.
Certo, con il Messale del 1962 viene meno quell’abbondanza della Parola di Dio nella Liturgia che era stata voluta dalla riforma conciliare e rimane una sola preghiera liturgica, il Canone Romano e viene meno la preghiera dei fedeli, ricchezze spirituali di
cui si privano quanti useranno il Messale del 1962. I Vescovi sono invitati a scrivere alla Santa Sede un resoconto delle proprie esperienze relative all’applicazione del Motu proprio tre anni dopo la sua entrata in vigore per poter trovare rimedio a eventuali
difficoltà che fossero insorte. Nel frattempo i Parroci sono invitati ad accogliere volentieri le richieste dei fedeli e a provvedere che il bene di essi si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della Parrocchia".
Gubbio/Gualdo Tadino
16/07/2007 08:45
Redazione