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Delitto Meredith, un'altra donna nella stanza degli orrori

Ancora un colpo di scena. Gli inquirenti sono convinti che quella sera nella casa di viale Sant'Antonio a Perugia fossero almeno in sei. Inanto è arrivato dalla svizzera il professore che potrebbe scagionare Patrick
La lista degli indiziati si allunga ora dopo ora. Non si concentrano difatti solo su un quarto uomo i sospetti degli investigatori perugini. Ci sarebbe una quinta persona, forse una donna, tra i complici dei tre indagati, accusati in concorso tra loro dell’omicidio di Meredith Kercher. Tra gli indizi spunta l’impronta da calpestìo del tacco di una scarpa, un’orma sul pavimento insanguinato non riconducibile a nessuno dei tre fermati, che dimostrerebbe, considerando che il sangue si coagula dopo pochi minuti, la presenza sulla scena del delitto di un soggetto non ancora identificato. E proprio sulle scarpe, le Nike di Raffaele che gli uomini della Scientifica di Roma passeranno oggi ai raggi x, si gioca la partita difensiva del laureando di Giovinazzo, collezionista di coltelli e spade giapponesi, che nell’udienza di convalida del fermo, alla presenza degli avvocati Luca Maori, Marco Brusco e Tiziano Tedeschi, si è ricordato di aver avuto ai piedi quelle scarpe da tennis il giorno prima e non quello del delitto. Non solo. Il Dna estratto dalle feci trovate nel water dell'appartamento dove la giovane Mez è stata trucidata non appartiene ad Amanda, non a Raffaele, non a Patrick. Di più: nemmeno alle persone che hanno frequentato almeno una volta la villetta degli orrori. Circostanza che non fa che avallare la pista della presenza in casa, nel momento dell’omicidio, di complici rimasti nell’ombra, forse solo sfiorati dalle indagini. Intanto appare sempre più controversa la posizione di Patrick, il ragazzotto africano invaghitosi di Mez, il cui alibi è appeso alla testimonianza del docente universitario di Zurigo insieme al quale dice di essere stato mentre qualcuno sgozzava la studentessa londinese. Potrebbero essere di Meredith infine i due peli ritrovati tra i capelli del dj congolese, titolare di uno dei locali più cool della Perugia universitaria e co-autore di un documentario su Wojtyla. Al vaglio degli investigatori anche la sua maglietta, quella che indossava il giorno del delitto. Nonostante la sua ostinazione nel ripetere “Non c’ero”, “Io, quella sera, non c’ero”, la polizia è convinta che stia mentendo. Come ha fatto ai suoi amici, ai quali, confidando nell’omonimia del cognome, si è spacciato per il nipote dell’eroe dell’indipendenza congolese, assassinato negli anni Sessanta. “Nessuno della mia famiglia lo conosce”, ha tenuto a precisare Francois Lumumba, figlio del politico dell’ex Zaire. Ha chiesto invece di partecipare alla messa nel penitenziario perugino dove è reclusa Amanda, che l’ex fidanzato americano ricorda come una che prega tutti i giorni, anche se poi si scopre che nel suo blog lei preferiva dichiararsi agnostica. Amanda, l’unica con le chiavi della villetta, la piccola cospiratrice che tende l’agguato all’amica portandole addirittura in casa lo spasimante rifiutato. Amanda che si dice devastata dalla morte di Mez, la stessa che, il giorno dopo del delitto, con calcolata noncuranza, si fa ritrarre abbracciata al fidanzatino di due settimane. “Tutta l’America deve sapere che sono innocente”, dice alla mamma, conoscendo fin troppo bene i meccanismi di manipolazione mediatica. E mentre lei lanciava appelli la salma della sua amica Mez, uccisa per aver detto no, ha raggiunto l’aeroporto londinese di Heathrow. ALESSANDRA CRISTOFANI

12/11/2007 11:21
Redazione
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