Un lager che ospita gli abitanti di una città qualunque e di un paese qualunque, colpiti da una epidemia di cecità. E’ la messa in scena del romanzo di Josè Saramago che affrontava con una certa complessità la precarietà della condizione umana. Una cecità che è metafora di come gli uomini, anche se inconsapevolmente, sono ciechi: non una malattia reale ma un offuscamento della razionalità. Del resto non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, si potrebbe dire usando un altro organo di percezione, l’udito.
Un lager a tutti gli effetti con camerate e filo spinato.Un luogo dove la natura umana diventa quasi bestiale, dove ci si dimentica del rispetto, della dignità, dell’etica e dei diritti di ciascuno. Saramago nel romanzo non restituisce la vista ai cechi, il regista Gigi Dall’Aglio sì. I non vedenti tornano ad aprire gli occhi, ad abitare nel loro mondo. Ma quello che vedono è diverso dai loro ricordi. E al termine della rappresentazione, che dura più di due ore, lo spettatore si convince che è meglio tenere gli occhi aperti per guardare le “brutture” dell’esistenza, permeata da una diversa tipologia di cecità, da quelle fisiche a quelle morali, comportamentali ed ideologiche. Non un vero e proprio lieto fine, dunque, ma un finale aperto.
Il regista D’Aglio ed i numerosi attori sul palco hanno dato vita ad una storia avvincente e nel contempo hanno suscitato a riflettere sulla natura umana in uno spettacolo teatrale che ha saputo emozionare proprio come fa il romanzo del premio nobel portoghese Saramago. Un racconto che parla al pubblico di ogni tempo. ( maddalena fagiani )