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Caso Liboni. Il killer e l’artista, a ruba le tele del Lupo

Grande mercato per i quadri che Luciano Liboni dipinse durante il suo periodo di reclusione. Giancarlo Liboni, il fratello del Lupo, racconta: “Mi hanno chiesto i dipinti di Luciano”.
Giancarlo Liboni è emozionato. Ha la voce che trema, lo sguardo leggermente assente. Ricordare Luciano, quel fratello che ha ucciso, è sempre straziante. Che ignoti gli abbiano chiesto i quadri del fratello, quelle opere su cui il Lupo aveva riversato nel periodo della sua reclusione (siamo alla fine degli anni Ottanta) tutto il suo male di vivere, lo considera, si avverte, quasi ininfluente. Eppure tanto marginale non è. Che qualcuno decida di investire il proprio denaro in quadri, dal modesto valore commerciale, solo per il piacere di poter piazzare nel salotto della propria abitazione un’opera realizzata da un assassino, questo, a dirla tutta, non è affatto trascurabile. Ha un che di morboso. Quasi a voler guardare in faccia la devianza, come se d’improvviso la mano sulla tela, la stessa mano che ha versato sangue innocente, prendesse vita. Già, il sangue versato. Ci pensa, Giancarlo, al carabiniere ucciso. A lui, nei giorni in cui si ritorna insistentemente a parlare di suo fratello per via di quella contestatissima pellicola che ne ripercorre le gesta, si rivolge con animo mesto. Non spetta a noi ricercare nell’iconografia dell’opera il seme, se seme c’è, della devianza. Ci limitiamo a guardarle, senza voler esprimere alcun giudizio di valore. Rileviamo soltanto che prevale la scelta di rappresentare animali, specie in coppia. Ecco dunque due cavalli che nitriscono, agitando le criniere, insofferenti, sembrerebbe, al recinto che sottrae loro la libertà. O anche due cervi ritratti nell’atto di avvicinare i musi. Due civette e dietro un cielo livido. Si è cimentato, il Lupo, anche nella realizzazione di soggetti sacri. L’immagine di Cristo e quella di santa Chiara le ha donate alla vecchia madre. Nessun commento, abbiamo detto. Solo non si capisce perché il prodotto creativo della mano che ha premuto il grilletto, la stessa che ha sapientemente mescolato i colori ad olio e intarsiato il legno, debba possedere una propria intrinseca virtù, tanto da rappresentare un ambitissimo pezzo d’arte. Che Luciano Liboni abbia sofferto nessuno, crediamo, lo ha mai messo in dubbio. Che la sua produzione, tanto quella scultorea che quella pittorica, sia stata per lui una specie di linguaggio dell’anima è molto più che un’ipotesi. Chè, come aveva intuito Proust, le opere, come nei pozzi artesiani, salgono più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore. Quel che non si capisce, proprio no, è però il bisogno di farne oggetto d’arredamento. Quel che lascia davvero sgomenti è l’insondabile perversione, più comune, a quanto sembra, di quel che avremmo creduto, di dotare il proprio soggiorno di un macabro trofeo. Alessandra Cristofani

28/03/2007 08:53
Redazione
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